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The speaker recounts his experiences as a partisan during World War II, highlighting the support he received from local farmers while recovering from injuries. He emphasizes the importance of the Resistance movement being driven by the Italian people and not just the partisans. He also discusses the treatment of fascists, the final battles against the Germans, and the decline of the traditional courtyard community and its impact on solidarity and collective values. The speaker concludes by emphasizing the importance of fostering human and moral values in modern society. Storie di leganesi e la vita del cortile da 1940 al 1970. Nell'ottobre del 1944, dopo essere stato ferito due volte, indebolito e ricercato, sono andato in montagna e mi sono unito alla divisione Gaspar e Paglietta, che agiva in Valcesia e scendeva a valle fino a quasi a Castelletticino. Sono stato ospitato in casa di contadini che mi aiutavano a guarire. Potevo infatti mangiare cibi sostanziosi ed essere curato da alcuni medici, mentre a Legnagna riuscivo a mangiare solo con i buoni che mi davano i frati della chiesa di Santa Teresa del Bambin Gesù. In quel periodo di convalescenza ho fatto un'esperienza diversa. Le case lungo il Ticino erano più piccole, di cinque o sei famiglie, ma anche lì facevano vita da cortile, perché le frazioncine in cui si divideva Castelletto-Ticino si articolavano come i nostri cortili. Tutti sapevano che io era un partigiano convalescente, ma nessuno ha mai pensato di denunciarmi. Anzi, in un'azione che avevo fatto in un paese vicino, avevo incontrato dei ferrovieri che un giorno erano venuti nel negozio ed elementare in cui mi trovavo. Mi hanno riconosciuto, ma non hanno detto niente. Alla fine del gennaio del 1945 abbiamo fatto a Castelletto un'eleva partigiana. Tutti i giovani che avevano compiuto 18 anni sono andati in montagna, tranne uno che era di famiglia fascista e che si è trasferito a Torino. Non c'erano eroi nella Resistenza. C'era chi aveva il compito di combattere e chi aveva il compito di tenere aperta una porta quando noi dovevamo nasconderci. In quella zona sono state bruciate dei fascisti case e intere frazioni. La Resistenza è stata fatta non dai partigiani, ma dal popolo italiano, perché un movimento partigiano non può vivere se non ha l'appoggio del popolo. Quando nella battaglia di Arona abbiamo avuto decine e decine di feriti, abbiamo trovato decine e decine di case pronte ad ospitarci. In quell'inverno sono state per tre mesi di vedetta al ponte di barche sul Ticino, a Castelletto e a Sesto Calende, in attesa di camions che portassero i vetrovagliamenti e per controllare chi passava. Ho anche fermato alcune spie fasciste che volevano passare in Piemonte, al di là del fiume. E c'era una ragazza che da una finestra gli stava a guardare per delle ore tutti i giorni. Era malata come me di tubercolosi e poi è morta nel 1946. Il mio lavoro era pericolosissimo perché potevo essere visto da tutti, dovendome restare fermo e vicino al ponte. Ma è stato un lavoro a volte facile grazie alla solidarietà degli abitanti del posto. In quei tre mesi non ho mai avuto ronie. Anzi, siccome sapevano che ero ammalato, allora pesavo meno di 50 kg per un metro e settantaquattro di altezza. Ogni tanto mi davano un pezzo di pane, di latte caldo oppure una scodella di brodo. Dovevo infatti stare lì fermo 12 o 13 ore con la mia bicicletta perché in quel periodo ci stavano avvicinando alla liberazione. Il momento di truppo e di autocarri era molto intenso. Una sera sono stato invitato a cena da un signore. Avevo tanta fame arretrata e tanta voglia di riposarmi e ci sono andato. Quando sono uscito mi hanno detto che era stato fascista fino al 25 luglio. E io ho risposto, se non mi ha avvilenato vuol dire che qualcosa è cambiato in lui. Dopo 12 o 13 anni sono ritornato a Castelletto. Ho ritrovato quello che mi aveva invitato a cena e ho saputo che dopo un periodo di emarginazione era stato accolto dall'arresto degli abitanti. Aveva anche fatto delle donazioni agli orfani di guerra. Infatti noi avevamo il parere che molti fascisti bisognava trattarli in maniera diversa da quelli contro cui combattevamo. Quando prendevamo dei giovani che facevano parte dell'esercito repubblichino non li trattavamo come loro trattavano noi, ma li portavamo in montagna e cercavamo di dialogare con loro. Alcuni di loro sono diventati dei buoni partigiani, anche perché nell'esercito di Salò c'erano andati perché costretti o perché non sapevano cos'altro fare quando erano stati chiamati a meditare. Tanto è vero che alcuni gruppi di repubblichini si scioglievano come neve al sole al contatto con i partigiani o con le popolazioni. Anche quelli della Monterosa erano stati inviati in Germania per specializzarsi nella guerra contro i partigiani. Sono passati armi e bagagli dalla nostra parte. La sera del 23 aprile tutte le formazioni più vicine alla pianura sono state messe in preallarme. Con il mio gruppo sono andati ad occupare tutta la zona del Ticino dalla parte del Chiemonte, del Lago Maggiore, fino alla stretta di Gola Secca. Avevamo già il sentore che il momento della liberazione era vicino. La sera del 24 una lunga colonna di partigiani che veniva dalla Lombardia è andata incontro alla Brigata Azzurra in Val Doce per concentrarsi allo scopo di sbarrare il passo a una colonna tedesca. Era una colonna di migliaia di tedeschi che avevano fatto cose molto brutte lungo la via del ritorno verso la Germania. Tra Castelletto e Sesto Calende avevano ammazzato un partigiano che quel parco di Sesto era andato da loro per trattare la resa. Hanno fucilato delle persone vicino a Meina. Hanno anche ucciso i cavalli da corsa giù in allevamento di dormelletto. Noi abbiamo portato tutti i traghetti sulla parte lombardia del Ticino e ci siamo nascosti sulle piccole alture che fiancheggiano il fiume per innazioni di disturbo vicino a Torbigo. I tedeschi sono stati costretti ad allungare la strada ed attraversare il fiume al ponte di Oleggio perché dovevano andare a Milano. Con una serie di stafette siamo riusciti a mobilitare le Brigate SAP di Legnano, Busto e Gallarate. Con un centinaio di partigiani li abbiamo chiusi tra Legnano e Ticino finché, dopo una breve schermaglia, si sono avresi. Un paio di giorni dopo questo periodo sono rientrato, dopo una lunga assenza, a Legnano e mi sono accorto che il prezzo pagato all'antifascismo era stato molto alto. Era il 28 o 29 di aprile e dei miei compagni di lotta la maggioranza era morta o era stata fatta prigioniera. Nel nostro gruppo di cortile, in quei giorni, ne ho incontrati solamente un paio. Dopo pochi giorni sono stato ricoverato alla clinica Bertarelli di Bustarsizio perché la mia malattia si era aggravata con le fatiche della lotta partigiana. E lì ho trovato due miei compagni di cortile ammalati anche di tubercolosi che sono in breve tempo morti. Io ancora, una volta, mi sono salvato da solo. Dopo di allora, fino al 1953, ho fatto vita di cortile, interrotta da lunghi ricoveri in cliniche e istituti. Lavoravo alla tosi, ma ogni anno mi assegnavo dai tre agli otto mesi. Nel 1953 ho dato la dimissione della tosi perché, dopo il fallimento delle sciopere del 1952 e per altri motivi, era meglio che cambiasse ambiente. Mi sono trasferito a Castelletto Ticino dove alcuni vecchi amici che mi avevano trovato un posto di lavoro. Ho preferito lasciare almeno per un po' la fabbrica e ho lavorato in un'azienda agraria. Sono andato ad abitare in un cortile rurale e lì ho conosciuto l'individualismo dei contadini che contrastava col modo più collettivo di affrontare i problemi nei cortili delle città. Anche nel cortile di Campania la gente si trovava sia nella sera, ma i problemi di una famiglia non diventavano come nel dormitorio, problemi di tutti, venivano risolti individualmente. Non c'era quella solidarietà che c'è ancora oggi nel cortile operaio dove, se qualcuno è malato, lo sanno tutti, e se qualcuno si sposa, tutti insieme facciamo il regalo. E se qualcuno muore, si fa una colletta per i fiori e per la famiglia, a secondo dei bisogni. Pochi anni fa, quando l'amministrazione delle case di via Rossini voleva mandare via la vedova morale di un inquilino intestatario dell'appartamento, perché non erano uniti tra vincoli di matrimonio, tutti ci siamo opposti. Queste cose possono succedere solo nei cortili, dove tutti i problemi diventano i problemi di tutti. Ma il cortile sta morendo perché, anche nei caseggiati popolari di nuova costruzione, anche se c'è uno spazio comune tra i palazzi, non esiste di fatto un cortile come lo intendiamo noi. E la morte del cortile si riflette anche nell'esterno, sui modi di vita delle persone, nell'indifferenza e spesso nel cinismo sempre più diffuso. Per questo va rivisto il modo di vivere oggi, va riproposto l'insieme dei valori umani e morali che aveva il vivere insieme. La solidarietà si crea nel cortile, si riflette anche negli altri ambienti in cui si vive. È molto importante sapere che quando uno sta male può chiamare qualcuno. Ma oggi, chi sta nei condomini, se non ha il telefono, è ben difficile che possa chiamare qualcuno o che gli apra una porta. Un mio amico, che è stato a Mauthausen, è stato trovato morto tre o quattro giorni dopo che era deceduto nella sua casa. È impossibile vivere senza solidarietà, ciascuno chiuso nel proprio gucio. Nel cortile, anche se ci sono diversità di idee politiche, non si giunge mai a rotture o a scontri, perché l'amicizia e la solidarietà sono più importanti di tutto il resto e influenzano i comportamenti. Sottotitoli creati dalla comunità Amara.org