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In this transcription, the speaker discusses the history of Milan and the events surrounding the appointment of Ambrose as the bishop of Milan in 374. The tension between the Nicene and Arian Christians and the role of Ambrose in mediating their differences are highlighted. Despite initially refusing the position, Ambrose eventually accepts and becomes a highly influential bishop in Milan. His impact is still felt in the city today, as he is considered its patron saint. www.redigio.it. E la storia continua. Ecco il grattacielo Pirelli, il Pirellone, progettato da Gio Ponti, un simbolo dell'Italia del miracolo economico, tirato su tra il 1958 e il 1960. Ed ecco la galleria dedicata a Vittorio Emanuele II, di un secolo prima. Un luogo di passaggio e un centro commerciale, ma ci parla della Milano del Risorgimento, quella che si libera dal dominio austro-ungarico. Il monumento al Re Sabaudo è al centro della piazza. Di fronte il Duomo, con i contrasforti, le guglie e le statue, la sua forma gotica lo fa svettare in alto nel cielo di Milano. Ma anche il Duomo è moderno, più giovane di mille anni rispetto alla nostra storia, perché dobbiamo tornare al IV secolo, al 374 della nostra era, per raccontare la vita di un uomo che è ancora oggi nome e simbolo di questa grande città, che all'epoca era la capitale dell'impero romano d'Occidente. Proprio così, il famoso editto di Costantino del 313, quello che fece uscire i cristiani dalle catacombe, il cosiddetto editto di tolleranza, venne messo a Milano capitale per oltre un secolo, dal 286, dopo la riforma dell'impero voluta da Diocleziano, al 402, quando la capitale dell'impero d'Occidente venne spostata a Ravenna. Era una città grande, bella, seconda solo a Roma, non rimane quasi nulla della Milano di quell'epoca, ma bastano queste sedici colonne corinzie, alte più di otto metri, per credere a quello che scrive il poeta Ausonio alla fine del IV secolo. A Milano ogni cosa è degna di ammirazione, vi è profusione di ricchezze e innumeriboli sono le case nobili, vi sono il circo, dove il popolo gode degli spettacoli, il teatro, l'anfiteatro, i templi, il palazzo imperiale, le celebri terme herculee. E c'erano già parecchie chiese. È in una chiesa ha luogo la nostra storia, in un giorno del novembre del 374. Le fonti non ci dicono quale fosse questa chiesa, ma noi ne scegliamo una che in quell'epoca sicuramente c'era. Sta di fronte alle colonne che abbiamo visto prima nella zona dell'antico quartiere imperiale, è la basilica palatina di Milano, San Lorenzo Maggiore. Ignoriamo la facciata di tardo 800 e andiamo all'interno. Lo vediamo nella sistemazione cinquecentesca, ma la pianta centrale, le esedre, le arcate, le gallerie, i portici, le proporzioni ci fanno dire che è un monumento antico rivestito in età rilascimentale. Immaginiamo questa chiesa gremita di fedeli, ma non per una funzione liturgica. Sono lì per la designazione del nuovo vescovo. Una scelta tutt'altro che facile, perché quei fedeli non sono uniti, ma profondamente divisi in due frazioni, cristiani niceni e cristiani ariani. I niceni seguivano il credo, quello che diciamo ancora oggi, la dichiarazione di fede proclamata cinquanta anni prima, nel 325, dal primo concilio del mondo cristiano, il concilio di Nicea. Gli ariani, seguaci del monaco e teologo Ario, invece, non credevano che il padre e il figlio fossero della stessa sostanza, non credevano nella divinità di Cristo e furono condannati come eretici, proprio dal concilio di Nicea. Ma l'arianesimo sopravvisse ancora qualche secolo e a Milano contava molti seguaci. Era Ariano, il vescovo appena morto, aussenzio, di cui quel 30 novembre del 374 i cristiani di Milano dovevano trovare il successore. In chiesa la tensione è altissima, i niceni reclamano per loro il seggio episcopale, tenuto per vent'anni da aussenzio, stremo sostenitore dell'epesio di Ario e scomunicato da Papa d'Amaso. I cattolici lo chiedono anche in nome dell'alternanza. Gli ariani non hanno nessuna intenzione di cedere. Il contrasto si fa sempre più aspro, lo scontro verbale vissia di degenerare in conflitto. Ad un certo punto si alza a parlare un altissimo funzionario imperiale, la massima autorità civile di Milano, un uomo che gode di grande prestigio, che si è rivelato imparziale e capace di affrontare l'alta conflittualità di quei tempi, non solo religiosa, ma anche sociale. Quell'uomo si chiamava Ambrogio, aveva un'età compresa tra i 35 e i 40 anni, la sua data di nascita incerta tra il 334 e il 339, tedesco di nascita ma romano di famiglia, una famiglia aristocratica, senatoria, cristiana. Nato a Treviri in Germania, dove il padre era stato mandato come governatore delle Gallie, si era formato a Roma, era bilingue, parlava perfettamente il greco, aveva studiato oratoria, letteratura, diritto. Ambrogio viene dalla corte imperiale, viene dall'antica famiglia Patrizia e quindi la sua formazione è letteraria e giuridica. Questo tipo di formazione è quello che gli consente poi di percorrere tutti i gradi dell'amministrazione pubblica, tanto da diventare un importantissimo funzionario che da Roma va in una delle situazioni più delicate che la penisola balcanica è firmio, lì fa la sua esperienza principale, tanto poi da maturare la chiamata invece nella situazione imperiale, specificamente nel nord Italia. Era un avvocato di successo quando nel 370 l'imperatore Valentiniano I lo chiama a Milano e lo nomina Consularis Emiliet Liguria, governatore della provincia di Emilia e Liguria, che allora comprendeva l'attuale Lombardia. Subito si distingue per il suo equilibrio, per la sua sensibilità, per la predisposizione all'ascolto. Così fa quel giorno, ascolta le ragioni degli uni e degli altri e poi interviene. Il suo discorso è un invito al dialogo, al rispetto del dialogo, riconosce i punti forti e quelli deboli di ciascuna delle due parti e conclude, esortando gli uni e gli altri alla concordia nella scelta del nuovo Pescovo. A questo punto non posso che leggere quella che si presenta come la cronaca di quella giornata. La troviamo nella vita di Ambrogio, scritta dal diacono Paolino nel 422, su sollecitazione di un altro dottore della chiesa, Agostino di Ippona. Paolino, che era stato segretario di Ambrogio prima di diventarne biografo, scrive. Mentre parlava la folla si dice che all'improvviso sarebbe risuonata in mezzo al popolo la voce di un bambino, Ambrogio Vescovo. A quella voce tutti voltarono lo sguardo verso di lui, acclamando Ambrogio Vescovo. E così, proprio quelli che poco prima, tra grandi disordini, erano fra di loro in dissidio, ariani e cattolici, improvvisamente, con una concordia mirabile e incredibile, trovarono consenso su di lui. Acclamazione spontanea o pilotata, Paolino scrive da cronista o da geografo. Non conveniva forse all'imperatore avere un suo uomo alla guida di una comunità religiosa così divisa al suo interno? Qualunque sia la risposta una cosa è certa, sarà difficile convincere Ambrogio perché lui non vuole saperne. Veniva sì da una famiglia cristiana, ma non era stato neppure battezzato. Ambrogio diventa vescovo improvvisamente, questo è vero, anzi è battezzato improvvisamente, benché venisse da una famiglia cristiana e quindi deve aver ricevuto una formazione religiosa di base. Nella sua ascendenza c'era anche una martire e quindi vuol dire che era una partecipazione alla fede convinta, seria, matura. Certamente non aveva la competenza specifica che si era creato negli altri ambiti di studio, in particolare quelli che lo preparavano alla carriera giuridica quando è andato a Sirmio e aveva da svolgere questi incarichi. Quell'invocazione Ambrogio vescovo lo ha profondamente turbato e noi possiamo leggere di questo turbamento sul volto in un ritratto che ce lo mostra, miracolo dell'arte che si conserva, proprio in quel periodo della sua vita. È un mosaico della seconda metà del IV secolo, la testa leggermente reclinata, lo sguardo sperduto, un corpo piccolo, gracile, indifeso. Era forse vestito così quel giorno, in abito d'alto funzionario civile, tunica bianca dalle ampie maniche con strisce azzurre, sottile sarpa bianca al collo. È Ambrogio Governatore, non Ambrogio Santo Vescovo. Anche se sta in mezzo ai Santi di quella meraviglia che è la Cappella di San Vittore in Celdoro, capolavoro dell'arte paleocristiana nel complesso della Basilica di Sant'Ambrogio. Dunque Ambrogio ha detto di no, almeno così racconta Paolino, ma le pressioni su di lui crescono, resiste, cerca in tutti i modi di respingere l'offerta, arriva a dichiarare non solo di essere impreparato, ma di essere iniquo, corrotto, indegno. I fedeli però non cedono. Con parole ispirate dalla fede, scrive Paolino, si rivolgono a lui promettendogli la remissione di tutti i peccati attraverso la grazia del battesimo. Ambrogio si appella l'imperatore, a Valentiniano fa comodo avere a capo della grande diocesi di Milano il suo governatore. Ad Ambrogio non resta che tentare la fuga, ma viene presto ritrovato. La fuga, eccola raccontata in un documento davvero eccezionale, l'altare d'oro della Basilica di Sant'Ambrogio, nono secolo, arte carolingia. Ambrogio è a cavallo e viene fermato dalla mano di Dio. Quale resistenza opposi per non essere ordinato, scriverà molti anni più tardi ricordando quei giorni, poiché ero costretto chiesi almeno che l'ordinazione fosse ritardata, ma non valse sollevare eccezioni, alla fine prevalse la violenza fatta. E così venne sfrappato, usa proprio questa parola raptus in latino, dai tribunali e dalla magistratura ed eletto all'episcopato. Il 30 novembre riceve il battesimo e all'ottavo giorno è ordinato Vescovo. Era il 7 dicembre, giorno di Sant'Ambrogio, giorno di grande festa a Milano, giorno della prima alla scala. Sarà Vescovo di Milano per 23 anni, fino all'ultimo dei suoi giorni, e lascerà un'impronta tale per cui dire Ambrosiano l'Eliria milanese. Non credo che ci sia una città che si identifica con il suo patrono tanto quanto Milano con Sant'Ambrogio. Il gonfalone della città porta la sua immagine. Nel castello Sforzesco possiamo vedere il primo gonfalone della città di Milano. È questo grande e bellissimo arazzo, benedetto e portato in processione nel 1566 da un altro grande santo milanese, Carlo Borromeo. Ambrogio, con la sinistra, regge il suo pastorale, mentre nella mano destra ha lo staffile per scacciare gli Ariani, che vediamo ai suoi piedi. La sua vita di Vescovo sarà segnata dalla notte agli Ariani. E lo staffile, che diventa il suo attributo economografico, compare anche nel ritratto che il Correggio dipinge nel 1525 in un pennacchio della cupola di San Giovanni Evangelista a Parma, uno dei grandi capolavori della pittura italiana. In questo caso, però, il fragello è stato lasciato in disparte. In mano il vecchio Ambrogio tiene una penna e il suo sguardo è chinato sulla pagina su cui sta scrivendo. La mitria al suo fianco ci ricorda che era Vescovo, ma Correggio ce lo mostra Dottore della Chiesa. Oggi la Chiesa Cattolica conta 36 dottori, tra uomini e donne, santi e sante, che si sono distinti per la loro dottrina, la loro ortodossia, la loro capacità di trasmettere il messaggio cristiano. Tra di loro ci sono Tommaso, Caterina da Siena, Antonio da Padova e Teresa Davila, Teresa di Lisier. Ma quattro sono i dottori maggiori, i primi ad essere stati proclamati tali nel 1298. Correggio li raffigura in coppia con un evangelista che sta in primo piano e i rispettivi simboli. Ambrogio è con Luca il toro e non a caso Luca, sul suo Vangelo, Ambrogio scriverà una delle sue opere maggiori, Girolamo accanto a Matteo con l'Angelo, Gregorio Magno con il suo Trilegno Papale e Marco con il Leone, Agostino con gli attributi vescovili, Pastorale e Mitria, affiancato a Giovanni con la sua Aquila. Questi ultimi colti in un'animata discussione sulla Trinità, come ci dicono i gesti delle loro mani. In tutti e quattro i pennacchi gran sfoggio di libri aperti, con Ambrogio e Girolamo concentrati sulla scrittura. Quattro intellettuali, quattro autori di opere che sono la base della costruzione teologica del cristianesimo. E in questa resta li troviamo in molte altre rappresentazioni dell'arte, i quattro dottori della Chiesa in cattedra, come si addice a chi trasmette la conoscenza. Solo che ad Ambrogio è toccato di salire in cattedra quando ancora doveva stare al banco. Lo confessa lui stesso in un trattato scritto molti anni dopo la sua elezione. È accaduto che cominciassi ad insegnare prima che ad imparare. Dovevo contemporaneamente imparare ed insegnare, perché prima di allora mi era mancato il tempo per imparare. Per questo motivo diventando vescovo ha bisogno di essere aiutato, sostenuto, deve imparare. La figura che gli viene messa accanto è quella di Simpliciano, sacerdote che poi aiuterà anche Agostino nel cammino della fede e qui aiuta Ambrogio a farsi quelle competenze di base che poi a piano piano Ambrogio stesso saprà acquisire da solo. Teniamo presente che Ambrogio, a differenza dello stesso Agostino, conosce il greco oltre che il latino e quindi si può permettere il lusso di leggere gli uni e gli altri autori cristiani e farsi quindi una formazione. Da vescovo doveva parlare ai suoi fedeli per far fruttificare, sono sue parole, nelle menti del popolo la parola di Dio che mi è stata affidata e Ambrogio diventerà una figura chiave in un delicato momento di passaggio tra il mondo romano e quello cristiano. Un traghettatore, Ambrogio è stato il traghettatore da un'epoca che si stava completamente disfacendo, l'impero romano ormai era pressoché dissolto a un'epoca in cui si cercava di mettere un po' d'ordine perché la situazione non esplodesse completamente. Quindi traghettatore di epoca e nello stesso tempo l'uomo che in questa operazione riesce a mettere la capacità organizzativa della romanità, gli ideali della romanità, li riesce a innestare in un ceppo completamente nuovo che è il ceppo del cristianesimo ormai affermato. Ritroviamo le coppie di dottori ed evangelisti nel cappellone di San Nicola a Tolentino, sulla volta affrescata nella prima metà del secolo XVIII da Pietro da Rimini, magnifico tuttore di secolo XVIII. Ambrogio, qui affiancato da Marco, appare come ritratto nell'atto di imparare e di insegnare allo stesso tempo, è nel suo abito vescovile, mitria in testa, seduto allo scrittorio, libri dappertutto, alcuni chiusi, altri aperti. Ambrogio sta leggendo, ma ha una penna in mano, forse si appresta a scrivere. Dalla tavola inclinata spunta un lungo foglio. La lettura per imparare, la scrittura per insegnare. Ambrogio non se la sentiva di parlare a trazio, per cui si affidava ad un testo scritto, un testo scritto di proprio pugno, mentre all'epoca era più diffusa la dettatura a mani esperte. Ambrogio spiega questa sua scelta in una lettera. A noi pare più opportuno impugnare lo stilo di propria mano, in modo tale che possiamo ponderare con gli occhi quel che scriviamo. In silenzio scriveva, in silenzio leggeva. Abbiamo una testimonianza straordinaria di Ambrogio che legge, uno dei libri più famosi, più grandi di tutta la storia, le Confessioni di Sant'Agostino, il quale conosce Ambrogio nel suo soggiorno milanese e che sarà da lui battezzato, come vedremo. Racconta Agostino. Nel leggere i suoi occhi correvano sulle pagine e la mente ne penetrava il senso, mentre la voce e la lingua riposavano. Sovente, entrando, poiché a nessuno era vietato l'ingresso, lo vedemmo leggere tacito e mai diversamente. Ci sedevamo in lungo silenzio. E chi avrebbe osato turbare una concentrazione così intensa? Questa lettura silenziosa colpì Agostino, anche perché assolutamente singolare. Da varie fonti sappiamo che all'epoca si leggeva ad alta voce. Ma cosa leggeva Ambrogio? Testi biblici e teologici. Imparò a fare il Vescovo leggendo i Padri della Chiesa, ma soprattutto le scritture. Confida in una lettera con un'immagine poetica. Quando leggo la Sacra Scrittura, Dio passeggia con me in Paradiso. Ed è sorta la lettura della Bibbia con quest'altra immagine. Bevi prima l'Antico e poi il Nuovo Testamento. Se non bevi il primo, non potrai bere il secondo. Bevi l'uno e l'altro calice, perché in entrambi tu bevi il Cristo. Vorrei tornare al ritratto di Ambrogio non ancora Vescovo, anzi, non ancora battezzato, al mosaico che ce lo mostra in abiti civili. Questo è Ambrogio che non ha ancora preso in mano un testo religioso, ma ha letto, secondo i canoni di una educazione aristocratica, i grandi classici lativi e greci. Ambrogio frequenta il Trivio e il Quadrivio, le normali scuole, cursus, degli studi di allora. Quando poi scrive anche da Vescovo ci si accorge che ha letto con attenzione alcuni autori, Virgilio, ad esempio, Seneca. Certo, talvolta le sue citazioni rispecchiano una cultura a citazioni, però certamente ha dentro nell'animo alcuni di questi autori classici sia conosciuto e studiato. Poi nell'ambito cristiano si vede, in particolare nel mondo orientale, Basilio, Gregorio di Nazianzo, che sono poco più anziani di lui, ma di cui vuol dire che lui riceve in fretta gli scritti e se ne fa esperienza origine poi il sacerdote di Alessandria, di un secolo antecedente, che Ambrogio legge moltissimo e a cui si ispira anche per la interpretazione delle scritture. Ma non ci sono solo le letture nei suoi primi passi episcopali. Riprendiamo il libro di Paolino, La vita di Ambrogio. Quando fu ordinato Vescovo diede alla Chiesa e ai poveri tutto l'oro e l'argento che possedeva. Donò alla Chiesa anche i terreni di una proprietà sua, riservandone lo soffrutto alla sorella, ma non avanzando per sé stesso nulla. La sorella si chiamava Marcellina, possiamo vederla nel grande mosaico absidale della Basilica di Santa Ambrogio. Ecco la Santa Marcellina in uno dei tre medaglioni sotto il trono di Cristo Benedicente. Nel medaglione accanto San Satiro, fratello di Ambrogio. Una famiglia con tre santi. Marcellina, che era la maggiore, si vota giovanissima alla fede, ricevendo il velo virginale dal Papa in San Pietro. Ambrogio le dedicherà uno dei suoi maggiori libri, il De Virginitate. La sua vita sarà segnata dal soccorso ai bisognosi e da una continua dedizione ai fratelli. Quando Ambrogio è eletto Vescovo, da Roma si trasferisce a Milano. Lo stesso fa Satiro, che lascia la professione di avvocato per assistere Ambrogio nelle opere di carità. Pare che i due fratelli si somigliassero molto, al punto che venivano scambiati l'uno per l'altro. Nella Basilica Ambrosiana possiamo vedere Satiro raffigurato da Giambattista Tiepolo in un frangente drammatico, di ritorno dall'Africa, viene assalito da una grave malattia e fa naufragio, da cui scampa con poderose nuotate, ricorda Ambrogio. Appena a terra si precipita a cercare un Vescovo cattolico per ricevere il battesimo all'Eucarestia e di corsa torna a Milano, dove di lì a poco morirà, assistito dai due fratelli. «Pensavamo che tu non potessi più esserci rapito», dirà Ambrogio nell'orazione funebre. Marcellina sarà l'ultima a morire, pochi mesi dopo Ambrogio. Tre esistenze unite da un affetto fraterno e improntate ad uno stesso severo stile di vita. «Gli artisti ci mostrano Ambrogio Vescovo come un uomo saggio e potente, e lo è stato, ma dovremmo provare ad immaginarlo in una veste quasi monacale. Assiduano la preghiera di giorno e di notte», scrive il suo biografo Paolino, «uomo di grande astinenza, di molte delvie e fatiche, che macerava il suo corpo con frequenti digiuni». Così è l'uomo, ma com'è il Vescovo? Ambrogio ha fatto la sua scelta, è un cristiano oniceno, ma è il Vescovo di tutti, anche degli Ariani, perché lo hanno voluto sia gli uni che gli altri, e gli Ariani sono molti in città e sono protetti dalla corte imperiale. Per alcuni anni ci sarà una convivenza pacifica fra i due gruppi. Quando diventa Vescovo lo scelgono verosimilmente per la dirittura morale, per la capacità di guida, per l'equilibrio, per l'onestà che aveva mostrato in quel compito laico, proprio perché c'era bisogno nella comunità dei credenti di qualcuno che mettesse pace, unità, armonia, ed è per questo che utilizza subito questa sua capacità, dovrebbe dire innata, di essere uomo che fa unità, uomo che fa armonia, tanto che si dice non ha cacciato lontano i sacerdoti ordinati dal predecessore, che era Ariano, casomai ha fatto una formazione a tutti, compreso questi sacerdoti, perché in qualche modo assumessero la dottrina corretta e non quella erronea del suo predecessore. Ambrogio si muove con prudenza anche verso il clero Ariano, non si contrappone, si confronta, ma come cresce la sua cultura teologica al confronto subentra il proposito di corregge dell'errore, fino al contrasto aperto, alla condanna, alla lotta. Diventando Vescovo Ambrogio cerca di raccogliere in unità la sua chiesa, non tuttavia accettando ogni pensiero di un tipo o dell'altro. L'arianesimo come tale non può accettarlo, perché è una presentazione della fede cristiana che taglia alla base lo stesso cristianesimo. Benché possa sembrare semplicemente una questione di principio, di parole, è fondamentale. Se c'è incarnato il figlio di Dio, vuol dire che c'è un legame fra cielo e terra. Se invece il figlio di Dio è un inferiore, comunque si sia, al padre, allora non c'è questo legame perché ha mandato giù un emissario. L'arianesimo ha questo bulnus tremendo che butta dentro, Ambrogio non può accettarlo. Ecco allora l'immagine di Ambrogio con lo stafile in mano, il suo attributo più diffuso. Ambrogio flagellatore degli eretici, anche negli affreschi cinquecenteschi con grandi figure di padri e dottori della chiesa. Come in questo capolavoro di Lorenzo Lotto, un affresco che si conserva nell'oratorio di Villa Suardi nella provincia bergamasca. Ai lati del Cristovite, che occupa il centro della scena, da una parte Girolamo, dall'altra Ambrogio, gettano dalle scale gli eretici impedendo loro l'accesso al Regno dei Cieli. Il conflitto esplode con l'imperatrice Giustina, filo ariana, vedova di Valentiniano I, regente del trono per il figlio bambino. In questa testa marmorea conservata al Museo di Arte Antica del Castello Sforzesco c'è forse il suo ritratto. A un certo punto gli imperatori prendono la loro posizione. Inizialmente c'è Graziano, il quale dice spiegati e per Graziano, e poi per tutti, Ambrogio scrive il cosiddetto Defide, un testo sulla fede in cui commenta queste cose. Graziano si lascia convincere e quindi Ambrogio, che può partire come osservato speciale, diventa colui che convince. A un certo punto però in Milano cambia la fisionomia dell'imperatore e arriva Giustina con il figlio Valentiniano e Giustina vuole impostare tutta una presenza ariana, filo ariana, anche perché l'esercito suo, che viene di solito dall'Illirico, dalla penisola balcanica oggi, è un esercito che si ispira a quel pensiero. E ne nasce una lotta. È una lotta che Ambrogio gioca non solo sul piano politico e teologico. Queste murature perimetrali, questi contrasforti, questi absidi, sono opera sua. Nel pieno della sua intransigente lotta agli ariani, Ambrogio fa infatti a Milano quello che Costantino aveva fatto a Roma, erige basiliche. Ne fa quattro e le colloca in corrispondenza dei punti cardinali, in modo da comporre una porta di croce immaginaria inscritta nella città. Questi bei mattoni, dal colore così caldo, appartengono alla prima delle quattro basiliche, quella che Ambrogio colloca a sud, alla punta inferiore della croce, e intitola Agli Apostoli. Basilica Apostolorum, San Nazaro, dal nome del martire che qui riposa. Sorge su quello che oggi è il corso di Porta Romana, e allora era una via monumentale con un porticato di 600 metri. La facciata è rinascimentale, l'interno ha subito molti imperventi nel 5 e 600, ma l'impianto è quello originale, una grandiosa basilica a sala, con la pianta a forma di croce, una delle prime di questo tipo nella storia dell'architettura cristiana d'Occidente. Siamo nel 382 quando Ambrogio comincia a costruirla, a otto anni dalla sua elezione a vescovo. Pilastri, arcate, colonne, sono quelli di allora, e sono sopravvissuti alle manipolazioni diversi tratti della muratura originaria. Di fronte a questi due frammenti ci si può anche comuovere. E' quello che resta dell'iscrizione originale, oggi ricomposta, dettata da Ambrogio per illustrare il significato e la forma della chiesa. Ambrogio edificò il tempio e lo consacrò al Signore con il nome degli Apostoli come casa per le reliquie. Qui Ambrogio aveva infatti riposto le reliquie degli Apostoli che aveva ricevuto da Papa d'Amaso. Epigrafe continua così. Il tempio è disegno della croce, il tempio la vittoria di Cristo. Ambrogio esprime la simbologia della costruzione. Questo è abside al tempio e casa a Nazaro, il quale, vincitore per essere stato pio, conserva l'eterna piete. Per lui la croce fu palma di vittoria. Fino a qualche tempo fa a San Nazaro era conservato un oggetto, una piccola cassa d'argento, che Ambrogio aveva fatto fare per custodire le reliquie degli Apostoli che il Papa gli aveva dato. Non si trova più qui, ma possiamo vederla al Museo di Oceano. Ecco la capsella di San Nazaro, preziosa testimonianza dell'arte paleocristiana a Milano. E' sostanzialmente integra, è come la vedeva Ambrogio. Sul coperchio l'immagine di Cristo circondato dagli Apostoli, secondo un'iconografia allora già diffusa. Le ceste con il pane e le brocce in primo piano sono una chiara allusione all'Eucaristia. Sul lato frontale la Madonna seduta su un trono da imperatrice col bambino in grembo. A destra e a sinistra due personaggi che offrono dei piatti. Sul retro una scena di incerta interpretazione. Sul lato destro i tre ebrei nella fornace con l'angelo che li salverà. Infine il giudizio di Salomone, raffigurato come un imperatore romano. Sono scene ripetute infinite volte nell'arte, ma qui siamo agli inizi, al tempo in cui l'iconografia cristiana prende forma. E dobbiamo ringraziare San Carlo Borromeo, ancora una volta lo ritroviamo associato ad Ambrogio, entrambi patroni di Milano, per aver ritrovato nel 1578 questo tesoro ambrosiano sotto l'altare maggiore della Basilica di San Nazzaro. Delle quattro basiliche ambrosiane ce n'è una di cui non rimane traccia. Era la parte est della croce, la Basilica Confessorum et Profetarum, dove Ambrogio volle deporre la Salma di San Dionigi. Una nobile figura che sta all'origine della nostra storia. Dionigi era vescovo già da cinque anni, quando nel 355 l'imperatore Costanzo lo costringe all'esilio per sostituirlo con un aussenzio, proprio il vescovo ariano che precede Ambrogio. Qual era la colpa di Dionigi? Quella di essersi opposto alla linea ariana favorita dall'imperatore. I suoi resti raggiunsero Milano grazie ad una grande figura della chiesa orientale, Basilio Magno, il quale li consegnò ad Ambrogio. La Basilica Profetarum, invece, non c'è, ma sappiamo che si trovava nella zona dei bastioni di Porta Venezia. Fu demolita alla fine del Settecento, quando a Milano c'erano gli austriaci, per far posto al museo di storia naturale e ad un parco, oggi intitolato a Indro Montanelli. Il Duomo di Milano Se andiamo nel Duomo di Milano, troviamo un documento davvero sorprendente in questa croce a sbalzo e cesello in argento dorato, fatta eseguire intorno al 1040 dal vescovo Ariberto d'Intiniano. Lo vediamo, piccolo piccolo, mentre sollava con le mani, offrendolo al Salvatore, proprio il modellino della chiesa di San Dionigi. Molto probabilmente quello romanico, non quell'originale, ma almeno quello possiamo immaginarlo. Nel 384, mentre prosegue l'edificazione delle basiliche e la lotta agli ariani non conosce tregua, Ambrogio apre un altro fronte, contro il Paganesimo. Anche a Milano, che allora contava 120 mila abitanti circa, i Pagani erano la maggioranza. Al centro di questa storia c'è un uomo di grande prestigio, un aristocratico colto, un brillante oratore, di famiglia ricca e potente, il senatore Quinto Aurelio Simmaco. Simmaco è l'esponente dell'antica tradizione romana, che è una tradizione basata sul Paganesimo. È basata su, ormai, un'apertura, certo agli antichi dei della Romanità, ma anche a tanti altri culti, in cui tutti i culti sono sullo stesso piano. Contrapposto a Ambrogio, invece, è no, ci spiace, ormai è avvenuto il cambiamento. E quindi la religione unica, o meglio, la religione principale, è il Cristianesimo. Attenzione, Simmaco aveva dietro l'aristocrazia romana, non è che fosse isolato. La risposta di Ambrogio è la risposta che dice, ormai, il Cristianesimo è la religione della maggioranza. E se questa è la religione della maggioranza, gli altri culti non sono ammessi, soprattutto, in sedi istituzionali, come sono tre sedi di Roma. La polemica si accende intorno ad un simulacro della tradizione romana, l'ara con la statua della Dea Vittoria, che l'imperatore Graziano, favorevole ai cristiani, nel 382, aveva fatto rimuovere dall'atrio del Senato, dove era stata per secoli. Nel 384, Simmaco, che è prefetto surbis, si fa portavoce dei membri pagani del Senato, chiedendo al nuovo imperatore, Valentiniano II, di abrogare quelle disposizioni e di ripristinare l'ara della Vittoria. L'altare della Vittoria, che Simmaco vuole reintrodurre come sede di culto, come luogo di ritrovo, come occasione per esprimere la devozione dei romani agli antichi dei, è la risposta che cerca di dare, non a titolo personale, ma semplicemente perché a Roma esisteva ancora dei patrizi, dei nobili, una classe dirigente, diremmo noi oggi, cioè tutta una cultura classica che non era stata ancora toccata o contagiata dal cristianesimo, era effettivamente dei romani che ritenevano che le tradizioni dovessero essere conservate e in qualche modo essere trattate alla pari dei nuovi culti a incominciare dal cristianesimo. L'ara della Vittoria non verrà riportata nella curia, Simmaco ne uscirà sconfitto. Il suo fu l'ultimo nobile tentativo di far rivivere la cultura pagana di fronte all'avanzata del cristianesimo. Il suo esposto e le due lettere di Ambrogio all'imperatore sono uno straordinario esempio di civilissimo ma duro confronto tra due culture ormai diverse e lontane. Ma per Ambrogio c'è ormai una sola strada, un solo Dio vero. Non c'è spazio per il paganesimo. Nell'autunno del 384, pochi mesi dopo lo scontro con Simmaco, nella vita di Ambrogio entra questo dottore della chiesa che Pietro da Rimini, a Tolentino, affianca all'evangelista Giovanni, Agostino di Pona. E ci entra per volontà di Simmaco, è lui che fa avere ad Agostino la cattedra di retorica a Milano. Si dice che l'abbia fatto per concedersi una rivincita, una vendetta nei confronti di Ambrogio. Agostino è un manicheo, è un eretico, è fortemente anticartolico, è per giunta intelligente e brillante e quindi l'uomo giusto per contrastare quello scomodo vescovo. Agostino è, dal punto di vista moderno, un esempio straordinario della capacità di Roma di riuscire a rendere, o diremmo noi oggi, di accogliere e di integrare gli stranieri. Era un personaggio del Nord Africa, quelli che noi oggi li chiameremmo immigrati. Ebbene, Agostino era un immigrato, un uomo di grande intelligenza e di grandissima ambizione che va a Roma, dove viene accolto come cittadino romano perché lo è, perché la cittadinanza viene estesa, sappiamo, a differenza di oggi, ma comunque va a Roma e li insegna. Insegna ma è molto ambizioso e Simmaco, cogliendo la lucidità, la capacità di quest'uomo, cosa fa? Lo spedisce a Milano. E immagina che mandando Agostino a Milano come retore, cioè come insegnante, ma nello stesso tempo come ghost writer, cioè come colui che scrive i grandi discorsi che vengono prodotti dalla sede imperiale, che diventano discorsi imperiali, a questo punto lui possa in qualche modo contrastare Ambrogio, soltanto che evidentemente Simmaco non ha fatto i conti con l'osso. Agostino finirà per rimanere affascinato da Ambrogio. Quanti pittori li hanno raffigurati insieme in affreschi pale d'altare, sacre conversazioni, l'uno e l'altro con nitria, pastorale, libro, perché entrambi vescovi e dottori della chiesa e quasi simili d'aspetto, in realtà erano molto diversi tra loro, Ambrogio un aristocratico romano nato in Germania, un temperamento forte, un uomo determinato, Agostino nato in Algeria di etnia berbera, un uomo tormentato alla ricerca di se stesso e poi la differenza d'età, Agostino ha almeno 15 anni meno del vescovo, ma i due hanno qualcosa in comune, la cultura romana, la cultura che noi chiamiamo classica. Agostino non giunge da solo a Milano, ma con una donna di cui non conosciamo il nome, che gli aveva dato un figlio allora dodicenne, Adeodato. L'incontro con Ambrogio avviene subito, Agostino va a trovare il vescovo da funzionario di alto rango per dovere istituzionale. L'incontro è folgorante, come scrive lo stesso Agostino nelle confessioni, mi accolse come un padre e gradì la mia visita, io pure presi subito ad amarlo, però non certo come maestro di verità, poiché non avevo nessuna speranza di trovarla dentro la chiesa, la verità. A ottobre del 384, quando avviene quel primo incontro, Ambrogio, vescovo da dieci anni, è la personalità più in vista di Milano, temuto dai potenti, amato dal popolo e ammirato da tutti per i suoi sermoni. Agostino va a sentirlo per verificare quanto quella fama fosse meritata, e ne rimane sconvolto. Diventa un assiduo ascoltatore e col tempo avverte che il suo cuore si apre, non solo alle parole, ma anche al contenuto, entra nel dubbio. La fede cattolica non mi appariva vinta, ma non si mostrava ancora vincitrice, ricorda nelle confessioni. A giugno del 385 lo raggiunge a Milano la madre Monica, animata, come sappiamo, da una fortissima fede cattolica e in ansia per i tormenti del figlio. Anche lei corri a sentire Ambrogio, pendeva dalle sue labbra, narra Agostino, e amava quell'uomo come un angelo di Dio. La madre vorrebbe che il figlio stringesse un rapporto con il vescovo, e Agostino cerca il dialogo con Ambrogio, ma in vano. Caterve di gente indaffarata che soccorreva nell'angustia si frapponevano fra me e le sue orecchie, fra me e la sua bocca, leggiamo nelle confessioni. Delle speranze che coltivava, delle lotte che sosteneva contro le tentazioni della sua stessa grondezza, non potevo avere né idea né esperienza. E lui ignorava le mie tempeste e la fossa dove rischiavo di cadere. A non farlo cadere sarà il vecchio sacerdote, Simpliciano. La basilica a lui dedicata è la terza nella croce ideale immaginata da Ambrogio. Siamo all'Apice Nord, in corso Garibaldi. Eccola, San Simpliciano, un portale del 1100 entra una facciata in stile di Tardo 800. Entriamo. Questa era la Basilica Virginum, una grande chiesa paleocristiana. Che cosa è rimasto di allora? La struttura, la muratura, le pareti originarie si sono conservate fino all'altezza di 22 metri. Cominciò a costruire l'Ambrogio nei suoi ultimi anni. A completarla fu Simpliciano. Ma chi era Simpliciano? Lo abbiamo già incontrato per la verità nella nostra storia. Era lui, un uomo di grande cultura, che aveva preparato Ambrogio a ricevere i sacramenti. Era lui che lo aveva iniziato alle sacre scritture. Era lui, infine, che lo aveva assistito nella formazione teologica. Di vent'anni il più anziano di Ambrogio gli sopravvive e sarà il suo successore. Per quattro anni vescovo di Milano. E Agostino? Se Ambrogio gli aveva aperto il cuore, sarà Simpliciano ad aprirgli la mente. È Simpliciano, vecchio ormai, come scrive Agostino, che lo guida sulla via della conversione. In questa piccola tavola di un pittore marchigiano, databile al I Quattrocento, è racchiusa la scena di quello storico battesimo. Ambrogio a sinistra, Monica inginottiata a destra, Agostino immerso nella vasca, l'amico Alipio già pronto di immergersi, il figlio di Agostino, adeodato, ancora vestito. Del battesimo di Agostino sappiamo la data esatta, la notte di Pasqua del 387, il 25 aprile, e conosciamo anche il luogo, e possiamo anche vederlo. Per questo torniamo a Piazza del Duomo. Al tempo di Ambrogio qui sorgeva la Basilica Maior di Milano, intitolata Santa Tecla. Sotto il Sagrato si trova il Battistero di San Giovanni Alefonti, voluto da Ambrogio e riscoperto negli anni Sessanta durante gli scapiti alla metropolitana. Siamo a circa quattro metri sotto il livello della piazza. Si riconosce l'impianto ottagonale. Gli otto lati alludono all'ottavo giorno quando Cristo risorse dal sepolcro. Dobbiamo immaginarlo con la cupola, i rivestimenti di marmi pregiati, i mosaici e forse gli affreschi alle pareti, edificato probabilmente a partire dal 378. In questa vasca si immerse Agostino per ricevere il battesimo. «E fummo battezzati e si dileguò da noi l'inquietudine della vita passata», racconta nelle confessioni. Quante lacrime vertate ascoltando gli accenti dei tuoi inni e cantici che risuonavano dolcemente nella tua chiesa. Erano i canti composti da Ambrogio, un'invenzione che ha lasciato il segno nella storia, non solo della liturgia, ma anche della musica. Il Deus creato Romnium era un inno molto amato da Agostino che lo cita più volte nelle confessioni. È uno dei quattro canti sicuramente autentici dei diciotto attribuiti ad Ambrogio, che è autore sia dei testi che delle melodie. Ambrogio è passato alla storia come l'inventore degli inni, o perlomeno di un certo tipo di inno facile da cantare, bello anche nel testo, bello nella musica. Ci sono arrivati una dozzina circa di inni con il nome di Ambrogio e storicamente ne possiamo essere sicuri, fino si può ipotizzare che la stessa musica che è arrivata a noi, almeno in parte, prenda le mosse dall'inventiva di Ambrogio. Ecco, la gente cantava volentieri gli inni, altre cose la gente si annoia, e pare che Ambrogio che dice quando si dicono le letture, la gente si distrae, la gente, anche Vasilio l'aveva detto prima, invece quando canti gli inni tutti dietro perché è bello partecipare. Da questa invenzione viene una tradizione, se si vuole, di musica e di testo liturgico, popolare, accessibile, ma allo stesso tempo denso e ricco di teologia e di significato. Il canto ambrosiano, una autentica rivoluzione nella vita della Chiesa perché è un canto collettivo, facile nei versetti e nella musica. Siamo nella settimana santa del 386, allo scontro finale con gli Aviani. Sappiamo come è andata grazie a discorsi e lettere di Ambrogio e alla testimonianza di Agostino che è ancora sulla strada della conversione. Leggiamo, noi stessi, sebbene freddi ancora del calore del tuo spirito, ci sentivamo tuttavia eccitati dall'ansia tonita della città. L'ansia di Milano per quella che verrà ricordata come la lotta per le basiliche. Cerchiamo di raccontarla. Ambrogio ha vinto la battaglia per l'ara della vittoria, fermando il tentativo di far rinascere il paganesimo, ma adesso deve fronteggiare di nuovo gli Ariani. La corte è tutta schierata dalla loro parte, preoccupata del consenso che vede crescere nei confronti di Ambrogio. Giustina pensa di mandarlo in esilio, ma non ci riesce. A pieno dello scontro, l'imperatrice convoca Ambrogio a palazzo e gli chiede di cedere una basilica agli Ariani. Ambrogio rifiuta e nel gennaio del 386 l'imperatrice fa emanare una legge per la libertà di culto che combina l'esilio o addirittura la pena di morte a chi si oppone. Dopodiché torna a chiedere una basilica per gli Ariani ad Ambrogio e ancora una volta Ambrogio si rifiuta. La corte non sa come reagire di fronte ad un vescovo così fermo e con grande seguito popolare. Tenta in vano di indurre Ambrogio all'esilio volontario. Non vi abbandonerò mai, grida i fedeli, potrò affliggermi, potrò piangere, sono armi le mie lacrime, ma non posso né devo opporre resistenza. Gli eventi precipitano all'approssimarsi della Pasqua. Ad Ambrogio viene ripetuta la richiesta di cedere una basilica, la basilica portiana, così è indicato nei documenti. Ma qual è questa basilica? Ci sono fatte varie ipotesi e una delle più accreditate è quella che ci tratti della basilica di San Lorenzo, la basilica imperiale. Torniamo allora a San Lorenzo, immaginando che qui si sia svolto l'atto finale della lunga contesa. Ambrogio ancora una volta dice di no. Agli emissari della corte, che sono andati in basilica a cercare di convincerlo, esclama che mentre l'imperatore usa del proprio diritto, perché tutto è in suo potere, lui è pronto a tutto, alla prigione e anche alla morte, ma non può disporre della casa di Dio e che ciò che è di Dio non è soggetto all'autorità imperiale. Durante il dialogo viene a sapere che la chiesa è assediata. Tutto quel giorno trascorse le langoscia, non potei tornare a casa perché tutto intorno c'erano i soldati che presidiavano la basilica, scrive Ambrogio nella lettera alla sorella Marcellina. E Agostino racconta, vigilava la folla dei fedeli ogni notte in chiesa, pronta a morire con il suo vescovo. Fu allora che si incominciò a cantare inni e salmi per evitare che il popolo deperisse nella noia e nella mestizia. È in quei giorni dunque che per sostenere la resistenza dei fedeli, Ambrogio ha inventato il campo collettivo che ancora oggi chiamiamo Ambrosiano. Perché Ambrogio dice io non ti do la chiesa? Per il principio di fondo, e cioè che accettare la dottrina ariana è veramente pericoloso per la fede stessa, ma anche per un principio pratico e obiettivo. Non c'era una vera comunità ariana a Milano, oramai, quando siamo nell'85-86, 385-386, ma c'era un'imperatrice che voleva far forza con quel gruppetto che lei aveva. Potevano accontentarsi senza pretendere della basilica della città di Milano. Ecco perché Ambrogio si oppone, evidentemente il potere è dell'imperatrice e del figlio suo che è Giolinetto, ma Ambrogio riesce ad avere dalla sua il popolo che lo sostiene. E poiché il popolo lo sostiene, l'imperatrice a un certo punto non ha il coraggio di andare oltre. E quindi si ha come una resa. Il 2 aprile, il giovedistanto del 386, dice che i soldati lasciano la basilica. Paolino, da agiografo, scrive che addirittura voltarono gli scudi e si iniziarono ad acclamare insieme la folla in difesa della fede cattolica. Gli studiosi hanno avanzato diverse ipotesi sui motivi della capitolazione della Corte. Resta il fatto che da quel momento Ambrogio diventa il signore assoluto, il vincitore assoluto, sia sull'eresia che sul potere imperiale. E allora possiamo finalmente vederlo, non da dottore, ma da trionfatore, come lo raffigura al fine Cinquecento il lombardo Giovanni Ambrogio Figgino per il Duomo di Milano. A cavallo, con lo staffile in mano, mentre dà la caccia agli ariani, schiacciati dal suo bianco intetuoso del treno. Poiché non merito di essere martiri, gli ho procurato questi martiri, sono parole di Ambrogio. Poche settimane dopo la vittoria nella lotta per i Brasili, che il Vescovo procura i martiri ai suoi fedeli, sono i santi Gervasio e Protasio. Possiamo vederli ritratti ai lati del trono di Campania, Possiamo vederli ritratti ai lati del trono di Cristo nella conca abfidale della Basilica di Sant'Ambrogio. I loro corpi erano stati trovati dal Vescovo in un luogo non lontano da qui. Per rivelazione, scrive Paolino, per presentimento, dice Ambrogio. Grazie ad una sua lettera alla sorella Marcellina, abbiamo la data del ritrovamento, il 17 giugno 386, era un mercoledì. La notizia si sparge ed accorrono i fedeli, ma si precipitano anche gli ariani. Per insinuare dei dubbi, per accusare d'Ambrogio di falso, lui risponde sostenendo che Gervasio e Protasio si sono rivelati per difendere la vera fede. E Paolino racconta dei miracoli operati dai due santi. Leggiamo. Molti guarivano dalle loro infermità, anche un cecoli acquistò la vista, La geografo qui sembra confermato dai fatti, perché da allora in poi, nei documenti non si parlerà più degli ariani di Milano, diventano irrilevanti. Qualche giorno dopo, i resti di Gervasio e Protasio vengono traslati nella Basilica e tumulati sotto l'altare maggiore, nel luogo che Ambrogio aveva scelto per la sua sede. Quindi, la storia di Gervasio e Protasio è una storia di un'epoca in cui i giovani ariani nel luogo che Ambrogio aveva scelto per la sua sepoltura. Oggi, il Vescovo e i due martiri riposano insieme, protetti dal grande Ciborio. E insieme li troviamo raffigurati nei mosaici di San Vittore in cel d'oro. La Basilica Ambrosiana ha subito interventi di ogni tipo nel corso dei secoli. Le colonne di porfido del Ciborio sono tra le poche sopravvivenze della Chiesa eretta da Ambrogio. Ci torneremo più avanti. Torniamo intanto al nostro racconto e lo facciamo spostandoci da Milano a Callinicum, un toponimo che pesa nella biografia di Ambrogio. Callinicum è una piccola città, un presidio romano sull'Eufrate, in Mesopotamia, precisamente in Siria, proprio quella Siria oggi martoriata da una guerra terribile. Ebbene, qui, nell'estate del 388, un incendio distrugge la sinagoga. Non è un incidente. Quell'incendio è stato appiccato da qualcuno, ma da chi? Dai cristiani sobillati, istigati dal vescovo. La risposta dell'imperatore, insomma, non tarda a venire. Fermiamoci sull'imperatore. È Teodosio I, detto il grande. Non è filoariano, non è pagano. È imperatore cristiano in assoluto, anche più di Costantino. Non si limita a tollerare. È lui che proclama con un editto il cristianesimo, religione unica e obbligatoria dello Stato, che riconosce il primato del vescovo di Roma, che afferma il credo niceno, che condanna l'arianesimo e promisce i riti pagani. È con lui che i cristiani fedeli al Papa vengono chiamati cattolici, ed è l'ultimo a governare da imperatore unico, d'Oriente e d'Occidente, e lo farà da Milano, e sarà a Ambrogio a celebrare le sue esequie. Tra i due non c'è solo affetto, c'è anche stima, ma questo non impedisce un durissimo scontro sull'incendio della sinagoga. L'imperatore ordina al vescovo di ricostruire a sue spese la sinagoga, e il vescovo risponde chiedendo in una lettera che venga ritirata l'ingiunzione. E lo fa, lo fa senza remore, con parole pesanti. Sentite che cosa dice Ambrogio all'imperatore. Il luogo che ospita l'incredulità giudaica sarà ricostruito con le spoglie della chiesa e il patrimonio acquisito dai cristiani con la protezione di Cristo sarà trasmesso ai templi degli increduli. Ambrogio arriva ad attribuirsi la responsabilità dell'incendio. Dichiaro di aver dato alle fiamme la sinagoga. Sì, sono stato io che ho dato l'incarico perché non ci sia più nessun luogo dove Cristo venga negato. E si domanda, il vescovo incriminato sarà traditore obbedendo all'ordine o martire disobbedendo? La risposta di Teodosio sarà salomonica. Mantiene l'ordine di ricostruire la sinagoga ma non a spese del vescovo. Ad Ambrogio, però, non basta. Vuole dall'imperatore una totale impunità per i cristiani e gliela chiede in pubblico, in chiesa, a Milano prendendo lo spunto dalla lettura del Vangelo. Finita l'omelia, Ambrogio va verso Teodosio. Nasce un dialogo che ispirerà diversi pittori. Il vescovo chiede a Teodosio di rinunciare alle sue decisioni. «Rasserino l'animo mio», gli dice. L'imperatore non prende nessun impegno. Ambrogio insiste, vuole l'annullamento dell'inchiesta e alla fine l'imperatore si arrende. Due anni dopo, nel 390, ci sarà un altro incontro fra il vescovo e l'imperatore ma questa volta non dentro la chiesa bensì fuori, sul sagrato, perché Ambrogio non fa più entrare l'imperatore dentro la chiesa. «Vattene da qui», gli esclama in faccia. Una scena su cui si eserciteranno diversi pittori nel 600. Addirittura due grandi, come Rubens e Van Dyck. Van Dyck ci mostra un Teodosio quasi genuflesso davanti ad Ambrogio che lo respinge con la mano sinistra. Un chierichetto dalla parte del vescovo, un cane da quella dell'imperatore. Rubens propone la stessa scena senza cane e senza lance. Nella rappresentazione di Camillo Procaccini i soldati appaiono aggressivi ma inutilmente visto il gesto imperioso di Ambrogio che allontana l'imperatore. Questa è la scena che ci è stata tramandata prima che in pittura da testi antisi che sembrano il fumetto dei quadri seicenteschi. «Vattene da qui e non aggiungere nuova iniquità a quella che hai già commesso, ma accetta le catene della penitenza» sono le parole che mette in bocca di Ambrogio un vescovo bizantino in una storia della chiesa scritta una cinquantina d'anni dopo l'episodio. Ma di quali iniquità si è reso responsabile Teodosio? L'episodio ricordato come quello del massacro di Tessalonica nella primavera del 390. Durante una rivolta popolare viene lapidato, impiccato, trascinato per le vie della città greca il governatore colpevole di aver negato i giochi annuali. La reazione dell'imperatore è tremenda fa organizzare una corsa di biglie attirando la folla nel circo e fa trucidare tutti i presenti. Migliaia di morti, una carneficina la città venne abbandonata al massacro per oltre tre ore. Morirono tantissimi innocenti lo scrive Paolino nella vita di Ambrogio il quale appresa la notizia manda una lettera di condanna a Teodosio cristianissimo imperatore imponendogli pentimento e penitenzo. Torniamo ai quadri Teodosio si reca in chiesa il papa non lo fa entrare questo è ciò che vediamo i testi antichi ci raccontano il seguito l'imperatore con le mani si strappava i capelli e si percoteva il volto e con le lacrime che versava insuppava la terra e se ne tornò fra gemiti e lacrime al palazzo imperiale. Ma come sono andate realmente le cose? La strage c'è stata l'imperatore l'ha prima ordinata e poi ha cercato di evitarla ma non ci è riuscito troppo tardi da dove veniva il ripensamento? Da Ambrogio il quale gli aveva scritto non solo dopo il massacro ma anche prima prima aveva saputo che era stato programmato prima che avvenisse in tutte le mie suppliche ti avevo detto che sarebbe stato di un'atrocità inaudita se non ti penti non posso ammetterti all'eucarestia perché mi addolora che tu non sia addolorato per la morte di tanti innocenti. Tallinico e Tessalonica due eventi distanti di qualche anno nei quali Ambrogio ha a che fare con l'imperatore Teodosio il suo rapporto con Teodosio è stato di amicizia di confidenza di intesa e tuttavia dietro a questa vicinanza personale c'era un aspetto molto più obiettivamente serio ed era il rapporto fra una chiesa che da pochi decenni aveva assunto una libertà di culto di espressione e un impero che da pochi decenni vedeva la figura dell'imperatore come cristiano e allora bisognava creare un giusto equilibrio fra queste due realtà istituzioni la chiesa dice io necessito di un'autonomia e Ambrogio sente forte questo bisogno di autonomia l'imperatore non può diventare succube della volontà di un vescovo fosse essere anche il vescovo di Milano dove l'imperatore spesso risiedeva quindi era una città di residenza dell'imperatore ecco perché la prima volta Ambrogio passa il segno cioè ha desiderio di essere più forte ma è troppo forte e quindi se a Callinico dei cristiani distruggono una sinagoga lui impone all'imperatore che non può essere il cristiano e il vescovo a ricostruire la sinagoga no, no questo è troppo ed è troppo non solo perché Ambrogio glielo scrive in una lettera ma poi quando Teodosio arriva a Milano e partecipa all'eucaristia si ferma all'offertorio e dice io qui non posso andare avanti se tu non mi concedi che cambi la legge questo non sa da fare non si può fare e ovviamente dopo questa vicenda Teodosio si mostra freddo con Ambrogio ce lo immaginiamo ma proprio questo fa sì che Ambrogio rifletta su qual è la giusta misura nei rapporti anni dopo Teodosio ne commette una veramente sbagliata ed è lui che commette un grave delitto perché un conto è voler punire per un omicidio commesso a Tessalonica e un conto è ammazzare la gente di Tessalonica prendi quel che capita mentre sono allo stadio a questo punto Ambrogio che ha capito che l'imperatore è pur sempre l'autorità e va rispettata dalla sua autorità anche quando commette errori così gravi gli manda una lettera riservata suggerendogli di non venire alla celebrazione perché come vescovo e lui come cristiano non si potrebbe andare avanti prima doveva fare penitenza Teodosio lo capisce e fa penitenza gli dice Ambrogio tu sei irruente ma io lo so che non fai queste cose con cattiveria di spirito ti lasci solo trascinare e spingere da certi consiglieri dati alla penitenza la riconciliazione avverrà nella notte di Natale del 390 così ce la fa vedere Pierre Soubleyrat pittore francese di primo settecento qui lo sguardo di Ambrogio è paterno e la mano benedicente sopra il capo di Teodosio inginottiato depose ogni insegna regale che solitamente indossava e con lamenti e lacrime invocò il perdono sono parole di Ambrogio nell'orazione funebre per Teodosio che morirà nel 395 pianse pubblicamente nella chiesa il suo peccato che quasi a sua insaputa aveva commesso perché ingannato da altri lui non si vergognò di far pubblica penitenza ricorda Ambrogio e dichiara ho amato quest'uomo che preferiva chi lo rimproverava a chi lo adulava l'imperatore si era sottomesso ad un vescovo che lo aveva rimproverato non era mai successo rivendicando il suo diritto a giudicare anche il sovrano la chiesa affermava la sua supremazia sullo Stato d'altronde Ambrogio lo aveva sempre detto l'imperatore è nella chiesa non sopra la chiesa un principio che segnerà una lunga epoca storica in qualche modo ovviamente cambiando i contesti eccetera noi possiamo vedere nell'impostazione che Ambrogio dà alla lotta che si scatena tra la chiesa di allora e la sede imperiale l'origine della divisione dei poteri Ambrogio morì nelle prime ore del 4 aprile del 397 era sabato santo sappiamo da Paolino che poco prima di essere costretto a letto stava ancora scrivendo lascia più di 30 libri discorsi lettere la domenica di Pasqua il suo corpo fu traslato alla basilica ambrosiana con un corteo aperto dai neobattezzati gli era una folla incalcolabile racconta Paolino fatta di persone di ogni sesso quasi di ogni età di ogni grado sociale non solo cristiani ma anche giudei e pagani andiamo anche noi a Sant'Ambrogio la chiamiamo Sant'Ambrogio o Basilica Ambrosiana ma lui l'aveva dedicata ai martiri Basilica Martirum una delle quattro che Ambrogio volle per Milano in modo da inserirsi come una croce nella pianta della città questa a ovest di quella basilica eretta tra il 379 e il 386 resta ben poco e non solo per le bombe del 1945 completamente riedificata in epoca romanica la basilica che vediamo è il risultato di interventi che si sono succeduti nel corso dei secoli siamo nel latrio e in pianto è forse quell'originale paleocristiano ma la costruzione è medievale e i capitelli sono del 600 e non del 386 e non del 386 e non del 386 e non del 386 e non del 386 e non del 386 e non del 386 e non del 386 e non del 386 e non del 386 e non del 386 e non del 386 e non del 386 e non del 386 e non del 386 e non del 386 e non del 386 e non del 386 e non del 386 e non del 386 e non del 386 e non del 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