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Matteo Scandolin

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Ci stendiamo a terra, pancia in su, con le gambe allungate e leggermente divaricate. La lezione di yoga sta per finire. Teniamo i piedi rilassati, aperti verso l'esterno e i palmi delle mani rivolti verso l'alto. Proviamo a percepire il nostro corpo pesante, abbandonato nella terra, come se sprofondasse. Ecco, siamo entrati in shavasana, la posizione del cadavere, quella che secondo Iyengar, il maestro di yoga fondatore del metodo che porta il suo nome, è l'asana più difficile. Cosa ci sarà mai di così difficile nello sdrearsi per terra? Deve trattarsi naturalmente non di ciò che succede al corpo, ma di qualcosa che ci succede nella mente, la quale, tuttavia, fa comunque parte del nostro corpo e che, come quello, è soggetto allo stesso destino. Siamo Francesco e Alice e questo è I miti dello yoga, un podcast che cerca di svelare, raccontando una storia, cosa si nasconde dietro gli asana fatti sul tappetino. È difficile per chi pratica oggi l'hatha yoga immaginarsi che un tempo lo yoga era più che altro un'attività mentale e statica. Le pratiche fisiche, per quanto presenti, avevano lo scopo di preparare il corpo a lunghe sessioni di meditazione o di risvegliarlo dopo un estenuante periodo di immobilità. Nell'hatha yoga attuale, invece, la pratica ruota quasi tutta intorno agli asana e alle cosiddette sequenze che sfumano il confine tra quest'antica pratica e la moderna ginnastica. C'è però un momento, che di solito chiude una sessione di pratica, in cui gli antichi precetti dello yoga sembrano arrivare intatti fino a noi. Amalgamandosi con le tecniche per il controllo del respiro e l'acquietamento della coscienza, l'ancestrale pratica vedica del sacrificio si realizza, tramite il corpo dello yogi, all'interno dell'edificio di simboli innalzato dal tantrismo, che trasforma il corpo stesso del praticante sia nell'altare che nell'offerta. Straiate in shavasana, la posizione del cadavere, ci offriamo alla crudeltà del tempo che scorre e cerchiamo di accettare, anche se per poco, la morte. Sarà bene, forse, dedicare un attimo per chiarire di cosa parliamo quando diciamo tantra. Questa parola ha solo parzialmente a che fare con il maithuna, il cosiddetto coito rituale, e di certo non si tratta di un insieme di istruzioni per fare sesso in maniera prolungata e straordinaria. Il tantra è innanzitutto un tipo di testo. Esistono, ad esempio, i mantra, gli strumenti per ricordare, e i sutra, gli strumenti per riassumere. Il tantra, quindi, è lo strumento per ampliare un insieme di precetti e regole che consentono di vedere il sacro e di celebrarlo adeguatamente in ogni aspetto della vita. Ciò che si è maggiormente diffuso di questa sofisticatissima tradizione sono certamente l'iconografia e la simbologia che accompagnavano i rituali, nonché alcune idee fondamentali che tuttora fanno parte del patrimonio dell'atha yoga. L'idea stessa del corpo yogico, dei chakra e delle energie della kundalini proviene, infatti, da una tradizione tantrica chiamata kaula, famiglia. La corrente dei kaula La corrente dei kaula è una delle tante scuole tantriche che identifica come forma suprema della divinità l'unione di due aspetti terribili del principio maschile e di quello femminile. Il dio Shiva, in uno dei suoi aspetti più raccapriccianti, presiede su tutto ciò che è spaventoso ed è noto anche col nome di Mahakala, il grande nero. Dalle divinità tantriche, però, ce n'è una che è nota anche ai profani. Adorna del munda mala, una collana di teste tagliate, la dea dalla pelle nera ride dei suoi massacri, beve il sangue dei suoi nemici e gli fa la linguaccia assedata di morte. Basta invocarne il nome perché il cuore sobbalzi. Madre dell'universo, forma onnipotente della Shakti, Kali è la regina delle dee, la manifestazione incarnata dell'ira di Parvati, consorte di Shiva. Abbiamo già visto di cosa è capace la dea nell'ottavo episodio di questo podcast, dove si raccontano le gesta di Durga, la dea che uccide il demone bufalo. Il capitolo finale di quella storia è riservato a Kali. Ancora una volta gli Asura, desiderosi di usurpare il trono dei Deva, hanno deciso di dar battaglia e stavolta, dalla loro parte sembra esserci una creatura davvero invincibile. Il suo nome è Raktavija, seme di sangue, e il suo potere è sconvolgente. Ogni volta che una goccia del suo sangue cade a terra, da essa nasce all'istante una sua copia. Durga, per quanto invincibile, rischia di essere sopraffatta. Ogni ferita inferta al demone non fa che peggiorare la situazione, e ben presto si ritrova circondata. Impaurita, infuriata, la dea fa appello al suo lato più spietato. Aperto il chakra del comando, il cosiddetto terzo occhio, lascia che la rabbia fluisca fuori dalla sua testa e prenda forma. Ne emerge Kali, nuda e furibonda, scheletrica, affamata. Armata di spada, Kali si avventa selvaggiamente sul Raktavija, infilzandolo in preda alla furia, e ogni volta che dalle ferite zampilla del sangue, la dea lo raccoglie con la sua ciotola, una calotta cranica, e lo beve, prima che possa toccare terra. Insaziabile, invasata, Kali ride e spalanca la bocca, e divora ammorsi la carne delle infinite copie di Raktavija, che fuggono terrorizzate alla sua vista. Il sangue scorre sui suoi segni nudi, che si agitano mentre corre a divorare il suo prossimo nemico. L'esercito degli Asura è inrotta, e perfino gli dei, alla vista di Kali, fuggono urlando. La fame della dea è senza fine. Dopo aver ucciso e mangiato tutti i demoni, Kali inizia a far strage di bestie e di esseri umani. Potrebbe divorare l'universo e nessuno avrebbe il coraggio di fermarla. Solo Shiva, scosso da tutte quelle morti, le si para davanti ed è intima di fermarsi. Ma Kali ha perso la ragione. Alza la spada e la batte su Shiva, che cade a terra. Kali, trionfante, gli schiaccia il petto con un piede, e solo in quel momento, quando vede scorrere il sangue del suo amato, la dea torna in sé. Imbarazzata e scossa, ansimando a bocca aperta, Kali tira fuori la lingua, rossa di sangue. La linguaccia è un gesto che la tradizione indiana attribuisce appunto all'imbarazzo, ma che a noi può sembrare di scherno oppure di complicità erotica e che è il segno distintivo più noto di Kali. Pare infatti che l'iconica linguaccia dei Rolling Stone si è ispirata proprio a lei. La dea Kali è la forma femminile del Kala, il Nero, uno dei nomi del tempo. Kali è quindi, piuttosto chiaramente, l'immagine della morte, ma la sua figura dimietitrice non serve solo a spaventare. Se Kali porta una testa tagliata, è perché la sua spada ci separa dagli ignoranze e dall'ego, rappresentati per l'appunto dalla testa. Pur essendo crudele e sanguinaria, Kali è pur sempre all'altro lato della dea, responsabile della vita sulla terra, e come tale è una madre pronta a tutto, che accompagna i suoi figli anche nei momenti più spaventosi della vita. In questa forma, la dea regge nelle sue mani un messolo d'oro e una ciotola colma di viso, cotto nel latte. Il paramanna, il cibo supremo, perché non solo si presenta come offerta alle statue degli dei, ma sfamarsi ai nonati da spezzare che gli anziani moribondi. Nella tradizione tantrica, l'immagine di Kali che posa il suo piede nudo sul petto di Shiva morente è così nota da essere diventata uno yantra, uno strumento di meditazione, che, per motivi legati alla natura stessa della lingua sanscrita, si intreccia con la pratica yoga dello Shavasana. Questo sublime mistero è racchiuso in un gioco di parole che può essere meglio apprezzato se si conosce il Devanagari, la scrittura degli dei, l'alfabeto sillabico usato per trascrivere il sanscrito, l'hindi e molte altre lingue. Se infatti facciamo precedere la lettera I alla sillaba SHA nella parola SHAVA, cadavere, otterremo il nome di Shiva. Senza questa I, privato della scintilla vivifica della Dea, persino Shiva è solo un cadavere. Quando siete estraiati in Shavasana, quindi, state offrendo il vostro corpo al più alto dei misteri. Potete convincere la vostra mente di aver accettato la vita e la morte, ma non il vostro cuore. Lì sarete sempre alla mercè della bontà della Dea, la quale, quando riaprite gli occhi, rimetterà in moto per voi lo stupefacente spettacolo dell'universo che vi terrorizza e vi affascina, che vive e muore attraverso di voi. Avete ascoltato i miti dello yoga, un podcast che cerca di svelare, raccontando una storia, cosa si nasconde dietro gli asana fatti sul tappetino. I miti dello yoga è un podcast scritto da Francesco Losapio, con le voci di Francesco Losapio e Alice Merlini. La post-produzione audio è di Matteo Scandolin. Se il podcast vi è piaciuto, potete iscrivervi alla nostra newsletter. Andate su imiti.yoga.it e iscrivetevi. Se il podcast vi è piaciuto, potete iscrivervi alla nostra newsletter. Andate su imiti.yoga.substac.com o cliccate sul link in descrizione. Così saprete sempre quando esce un nuovo episodio. Sottotitoli e revisione a cura di QTSS

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