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14 - Pane_ Significati [N.40 al N.44] (192kbit_AAC)

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Allora, riprendiamo dove eravamo rimasti venerdì scorso, stiamo parlando dell'Eucaristia, stavolta sotto l'aspetto del pane, e abbiamo cercato e stiamo cercando di sviscerare un po' questi vari significati del pane dal momento che Gesù l'ha scelto come materia eucaristica e cerchiamo di capire il perché Gesù l'ha scelto e con quale significato e con quali finalità. Non possiamo certo avere la pretesa di essere, di avere la certezza di individuare esattamente il senso, il valore, il significato del pane nel pensiero di Dio, però alla luce di questi duemila anni di tradizione cristiana, alla luce anche dei documenti ufficiali della Santa Fede, della Chiesa, si possono individuare, prospettare alcune finalità, alcuni significati. Ne abbiamo già individuati alcuni, qui siamo al quarantesimo, e pane che richiama la condivisione dei beni, soprattutto beni spirituali, perché è un cibo spirituale l'eucaristia. Papa Francesco ci illumina in questa maniera. Partecipare all'eucaristia significa entrare nella logica di Gesù, la logica della gratuità. Lui si fa nostro cibo gratis. Della condivisione. Gratuità, condivisione. Condividere in maniera gratuita qualcosa del nostro essere, del nostro tempo, di noi stessi. Questo è l'invito che ci viene appunto dal partecipare all'eucaristia. E per quanto siamo poveri, tutti possiamo donare qualcosa. Fare la comunione significa anche attingere da Cristo la grazia che ci rende capaci di condividere con gli altri ciò che siamo e ciò che abbiamo. Ecco qui giustamente il Papa evidenzia due dimensioni. Il ciò che siamo, il ciò che abbiamo. Siamo intelligenti, siamo capaci, siamo capaci di amore, di dedizione. Possiamo dare qualcosa del nostro essere, dei nostri talenti, delle qualità, delle competenze. Ognuno di noi ha delle competenze, ha delle capacità. Se ognuno di noi mettesse a disposizione degli altri gratuitamente un po' di queste nostre capacità, talenti, tempo, professionalità, questo porterebbe senz'altro a un grande vantaggio a tutti e a farci crescere tutti. E poi anche ciò che abbiamo, ciò che siamo, ciò che abbiamo. Fare la comunione, comunione è condividere, richiama appunto sia la comunione spirituale, sia la comunione sacramentale. Sì, perché quando andiamo a celebrare, a partecipare all'eucaristia, dobbiamo cercare di vivere entrambe queste dimensioni. Essere uniti spiritualmente, poi se le condizioni nostre spirituali interiori lo consentono, e cioè almeno senza il peccato mortale, accedere anche alla comunione sacramentale, cibarci del corpo di Cristo. Ma fare la comunione spirituale e sacramentale significa poi anche condividere con gli altri, fare comunione, condividendo ciò che siamo, ciò che abbiamo. Gesù sazia, ci dice sempre Papa Francesco, non solo la fame materiale, ma quella più profonda, la fame di senso della vita, la fame di Dio. Siamo vicini alla settimana santa, venerdì santo, Gesù prima di morire ha quell'espressione forte, ha quell'invocazione, ho sete. Lui ha sete di noi. Noi abbiamo sete di lui? Abbiamo fame di lui? Abbiamo fame del suo amore, della sua parola, dell'incontro con lui? Questo ognuno di noi lo deve dire alla propria coscienza e poi anche davanti a Dio. Poi certo, qui Papa Francesco parla anche di una fame più profonda di quella materiale, e cioè la fame del senso della vita. Che valore dò la mia vita? Che finalità dò? Che cosa ritengo veramente essenziale e fondamentale nella mia vita? Papa Francesco proprio anche venerdì scolto, nella piazza San Pietro completamente vuota, ha posto anche questa domanda. La situazione di oggi ci obbliga anche a chiederci che cosa riteniamo veramente essenziale e fondamentale nella nostra vita, nelle relazioni con gli altri. Che cosa ricerchiamo di meglio e di più? La fame di Dio. Pane, altro aspetto, segno del bisogno. Il pane è il segno più chiaro del bisogno, e come scrive Appagnano, la nozione di bisogno non è quella di uno stato provvisorio di mancanza o di deficienza. Non è una situazione provvisoria, transeunte, ma piuttosto quello di uno stato o condizione di dipendenza che caratterizza l'uomo. È più una situazione estesa, diffusa, non è tanto uno qualcosa di provvisorio, di passeggero. No, è quella condizione per la quale ci riteniamo dipendenti da, siamo dipendenti da, siamo legati a. Noi cristiani dovremmo sinceramente subito dire siamo dipendenti da Dio, siamo legati a Lui, siamo dono suo, siamo segno di Lui. E' questo che caratterizza il nostro essere cristiani, ma caratterizza anche l'uomo, anche il non credente, che è dipendente da altri. Nessuno può dire io passo a me stesso. Anche solo da un punto di vista fisico, materiale, abbiamo bisogno della, di tanti e di tanti e di tanti altri. Al suo aspetto, nel pane eucaristico, Dio stesso è dono e donatore. Dono e donatore. Afferma ancora Papa Francesco. Dio stesso è il dono e anche il donatore, che invita chi lo incontra ad aprirsi ad una prospettiva che non è soltanto quella delle preoccupazioni quotidiane del mangiare, del vestire, del successo, della cadiera. Dio stesso nell'eucaristia è dono ed è colui che ci dona. E l'abbiamo detto già più volte, Cristo nell'eucaristica è il sacerdote che offre, che dona, è il sommo sacerdote ed è vittima, e quindi anche il dono. Offre se stesso la sua vita al Padre per noi. E dunque questa considerazione fa sì che ci apriamo ad una prospettiva che non è legata solo a questo mondo materiale. Cosa mangio? Cosa faccio? Come mi diverto? Quale successo ho? Quale potrei avere? Quale cadiera potrei fare? Troppo poco. Il tuo cuore è fatto per di più, di più, di più. Non si accontentare, punta più in alto, ricerca qualcosa di più grande, di più bello, di più completo, di più entusiasmante, un qualcosa che possa dare vero senso, valore, pienezza alla tua vita. Non abbassarla a un livello basso, non ridurla, ma esaltala. Il Signore te lo chiede di innalzarla, inalza il cuore, inalza la tua vita. Questo il Signore ti chiede. Le persone che hanno mangiato il pane da lui, distribuito da lui, distribuito, hanno solo placato la loro fame, ci dice ancora Papa Francesco, commentando la moltiplicazione dei pani e hanno dato più valore a quel pane piuttosto che al suo donatore. Ecco un po' l'errore che anche noi possiamo incorrere, cadere, e cioè che diamo più valore a ciò che riceviamo piuttosto che alla persona che ce lo dona. Quando riceviamo anche un regalo materiale, apprezziamo di più che cosa o chi? Quello che riceviamo o chi ce lo dona? Spero che tutti quanti noi abbiamo a evidenziare, a dare il primo posto al donatore, per cui alla luce del donatore acquista anche più valore, poi anche il dono. Pensate, nell'Eucaristia, pensiamo, nell'Eucaristia il donatore è Dio stesso, il dono è lui stesso, è il suo figlio. Qui abbiamo il massimo, il massimo della qualità e della altezza e profondità del donatore, e il massimo anche, appunto, del dono. Donatore e dono. Gesù, continua ancora il Papa, vuole quindi farsi capire che oltre alla fame fisica l'uomo porta in sé un'altra fame che tutti hanno, e che è la fame più importante, la fame di vita e di eternità, che lui solo può appagare in quanto pane di vita, e di vita eterna. Ecco, vedete anche qui come Papa Francesco evidenzia bene che non bisogna fermarsi solo agli aspetti fisici, materiali, economici, pure necessari, ma non sufficienti, perché il nostro cuore, noi stessi, siamo fatti per ben di più, per ben altro, e non possiamo essere appagati semplicemente dalle cose di questo mondo. Ci ricorda che il vero significato del nostro esistere terreno sta alla fine, nell'eternità, sta nell'incontro con lui che è dono e donatore. Siamo pellegrini, siamo in cammino, e veramente, ecco, non dovremmo mai perdere questa percezione. Anche la situazione di oggi, così precaria, così piena di timori, di paura, dovrebbe appunto inculcarci sempre di più il pensiero che noi non abbiamo la nostra patria qui sulla terra, siamo pellegrini, siamo in cammino verso l'eternità, e per cui quella porta che è la morte, ecco, è una porta che chiude una vita terrena, però apre, spalanca una vita eterna. Ossimo è anche capace di percepire questo momento della morte in questo senso più positivo, più armonioso, più sereno, e potrebbe infonderci anche più equilibrio, più serenità anche nell'affrontarlo. Se poi siamo accompagnati dalla mano di Dio, tanto meglio. Altro aspetto, il pane dell'amarezza. Il pane ricorda il pane dell'amarezza della cena pasquale, che gli ebrei mangiarono in Egitto, e lo rievocano ogni qual volta celebrano la Pasqua ebraica. Il pane eucaristico richiama quindi il nostro essere pellegrini qui sulla terra, e quindi il nostro essere in esilio, lontani dalla nostra vera patria in cielo. Come tra gli ebrei la permanenza nel deserto era il richiamo e il cammino verso la terra promessa, che per raggiungerla però dovevano faticare. Dovevano passare attraverso l'amarezza del deserto, sperimentare l'amarezza del pane mangiato nel deserto, e così anche un po' noi. Per arrivare all'eternità dobbiamo pur passare attraverso questa valle di lacrime, questo esilio, e poi dipende da noi anche come l'affrontiamo, come reagiamo, e come anche siamo capaci di affrontare, prendendo sempre la mano di Dio e tenendocela stretta, queste varie difficoltà. Il nostro faticare in questa amara valle di lacrime ci ricorda dunque questa pane dell'amarezza che stiamo faticando in una valle di lacrime. Così è stato anche per la passione di Gesù, Gesù ha voluto condividere anche questa nostra situazione e quindi Lui la può capire, Lui ci può dare una mano, Lui ci sta vicino, certo potrebbe anche togliercela di mezzo, però normalmente con interventi straordinari non lo fa. Si affida anche alle nostre capacità, al nostro impegno, alla nostra solidarietà. Noi continuiamo a pregare anche in questa situazione del coronavirus per chiedervi che Lui ci dia una mano ad arginare, a detellare anche questo virus, però Lui anche ti può rispondere, io ti do l'intelligenza, ti do la mia grazia, il mio aiuto, ti do una mano, tu datti da fare insieme con i tuoi fratelli, collabora e ricerca insieme con gli altri a sua solidarietà, si generoso dando il tuo apporto, il tuo apporto di intelligenza, di tempo, di soldi anche, di solidarietà, di collaborazione, di partecipazione o almeno di preghiera, perché noi cristiani abbiamo anche quest'arma potente che appunto la preghiera con cui ci rivolgiamo a Dio e con la quale possiamo sostenere, aiutare un po' tutti i nostri amici, i nostri ammalati, tutte le persone di questo mondo. Altro elemento in cui in questo aspetto evidenziamo il disceso dal cielo, disceso dal cielo. Il disceso dal cielo cosa indica? Io sono il pane vivo, vivo, vivente, disceso dal cielo. Questo disceso dal cielo cosa sta a indicare? Vediamo un po'. Gesù Cristo è un dono dall'alto, è il figlio di Dio fatto uomo, venuto fra noi. Non è semplicemente un uomo figlio del faleniame. Certo anche gli uomini del suo tempo, le persone del suo tempo, facevano fatica a riconoscere che lui è il figlio di Dio. Molti si fermavano e si sono fermati a considerarlo come il figlio del faleniame, di Giuseppe, come uno che come gli altri. Quindi anche allora era necessaria la fede, gli occhi della fede per vedere al di là della dimensione puramente fisica di quest'uomo che è Gesù. Gli occhi della fede, questi permettevano di vedere e di riconoscere il figlio di Dio, oltre la sua dimensione umana e nella sua dimensione umana. E' quello che è richiesto anche a noi. Ogni qual volta guardiamo un tabernacolo, ogni qual volta partecipiamo all'Eucaristia, ogni qual volta ci poniamo in adorazione davanti a quell'occhia consacrata, lì devono agire di più i nostri occhi della fede, più che i nostri occhi fisici. Sì, anche il contesto, le luci, il bello sensorio, la bella chiesa o cappella dove possiamo ritrovarci a fare l'adorazione, sono tutti elementi che ci possono aiutare, ma noi dobbiamo anche sapere andare oltre e non fermarci lì, per cogliere quella dimensione sopranaturale, quella dimensione di presenza reale del corpo, del sangue, anima e divinità di Cristo Signore. Non è facile, si richiede una buona dose anche qui di fede, una buona dose di occhi di fede, con cui sappiamo andare al di là di quello che vediamo fisicamente. Non è semplicemente dunque un uomo figlio del spallegname. Qualche volta mi sento dire, ah se fossi vissuto ai tempi di Gesù, quanto sarebbe stato bello e più facile credere. Non è proprio del tutto così, a parte il fatto che nessuno di noi deve disprezzare il momento in cui vive o il tempo in cui vive o il luogo in cui vive. Fa parte del nostro essere e, certo, dobbiamo cercare di migliorarlo, questo sì, col nostro impegno quotidiano, collaborando con gli altri. E però, anche allora, se tu fossi vissuto allora ai tempi di Gesù, ti sarebbe stata richiesta la fede, gli occhi della fede, la fede vista e trasmessa con gli occhi, con gli occhi della fede, per riconoscere in quel figlio del spallegname niente meno che il figlio di Dio. È da accogliere come un dono nella comunione, la quale però non è un diritto, è un dono. Se fosse un diritto fare la comunione sacramentale non sarebbe più un dono, non è un diritto. Vedati il riso della mano o della bocca. E qui, ecco, vorrei ancora una volta richiamare il modo come, quando riprenderemo le nostre celebrazioni eucaristiche con la partecipazione nostra, anche fisica, ecco, è importante che sia nel linguaggio, sia nel nostro modo di accedere alla comunione, abbiamo a manifestare che è un andiamo ad accogliere un dono, ad esempio il linguaggio che molte volte sento, vado a fare la comunione. No, no, fare non è il verbo giusto da utilizzare in questo, in questo contesto. Vado ad accogliere la comunione, vado a ricevere la comunione. È un dono, non è un diritto e non è neanche un dovere, è un dono che tu vai ad accogliere e devi anche prima chiederti e visionare bene la tua coscienza, se appunto non ci sia un qualche impedimento grave che non ti consente di accedere alla comunione. E così pure anche il rito della mano. Dovremmo cercare di capire un po' anche il senso di questo rito, come anche quello della bocca. Allora, hanno un significato sia l'uno sia l'altro modo. Quando i ragazzi che stanno per prepararsi alla prima comunione o i loro genitori mi chiedono ma è meglio accedere alla comunione ricevendola, accogliendola sulla mano o in bocca? Beh, io dico è importante che lei comprenda e che tu, ragazzo, comprenda il significato dell'uno e dell'altro gesto. Ad esempio, il significato dell'accoglierlo in bocca è come accogliere il gesto di una mamma che invoca il suo figlio. C'è un Salmo dell'Antico Testamento che ci dice, in cui Dio ci dice apri la tua bocca e io la voglio saziare, la voglio riempire. E dunque, anche questo è un bel gesto, è un segno di affetto, di amore da parte di Dio che, come fa la mamma con un bimbo, con il suo bimbo, che lo invoca, che lo rende partecipe direttamente lei, lo serve, lo invoca e quindi anche Dio usa questa gentilezza, usa questo aspetto di amore verso di noi. Come pure è anche bello il gesto dell'accoglierlo sulla mano. Per questo che io dico anche ai ragazzi, ai genitori, utilizziamo qualche volta l'uno, qualche volta l'altro, l'altra modalità. Il gesto, ad esempio, che però deve essere un gesto che va fatto con la mano, però posto in questa maniera, vediamo di farvelo vedere un po' meglio, è così, dove allora, già mettendo la mano così, vedete che io faccio una croce con le mie mani messe così, è un gesto di accoglienza e non come qualche volta qualcuno, quando io dico il corpo di Cristo e quello fa così e lo prende così, no, no, così, è il gesto di accogliere, accogliere. Quindi con il palmo della mano rivolto verso l'alto, ci dicevano già i primi cristiani che con questo gesto noi richiamiamo la culla che ha porto il bimbo Gesù, come anche il sepolcro che il venerdì santo accoglie il corpo di Cristo morto. È un gesto di accoglienza. E poi c'è, appunto, anche la mano che va sotto, e perché va sotto? Sia per fare la croce, ma sia anche per far sì, come ci dicevano i primi cristiani, che è come se io facessi un trono a colui che vado a ricevere, riconoscendolo che non è uno qualsiasi, ma è il figlio di Dio, è il re dei re, il signore dei signori, il creatore del cielo e della terra. Quindi anche con questo gesto esprimo, mettendo sotto la mano, esprimo dunque una dimensione di fede. Tanto comprendete quanto sia importante il gesto, e noi dobbiamo spiegargli i gesti, spiegarli, perché ogni gesto ha un suo preciso significato, e in questo caso sia accoglierlo in bocca, sia accoglierlo sulla mano, è un atteggiamento di accoglienza. Non è un diritto, vado ad accogliere un dono, a ricevere un dono. Lo stesso sacerdote e consacrante lo accoglie per la potenza dello Spirito Santo, non per la sua bravura o talenti. Ecco anche questo, noi celebranti dovremmo sempre ricordarcelo. Non è la mia bravura, non è la mia fede. Anzi, speriamo che non succeda, ma qualora anche fossi distratto, o fossi addirittura, e questo sarebbe un sacrilegio, fossi addirittura il peccato mortale, tuttavia per la potenza dello Spirito Santo e non per la mia cattiveria o la mia santità, quel pane diventa, per la potenza dello Spirito Santo, diventa il corpo e il sangue di Cristo. E anche questo il sacerdote celebrante e consacrante dunque lo accoglie, non lo fa lui, non lo fa diventare lui. Ecco perché anche dovremmo ridimensionare un po' la figura del prete, del celebrante, del vescovo che celebra. Io non vado a Messa perché c'è quel tal prete o quel tal vescovo, io vado a Messa, vado alla celebrazione eucaristica perché voglio accogliere la parola di Cristo, la parola di Dio, e voglio celebrare la sua morte e la sua risurrezione, voglio accogliere, se ho le disposizioni interiori adatte, voglio accogliere il suo corpo, il suo sangue. E dunque, certo il prete mi può anche aiutare, il vescovo mi può anche aiutare, però anche il peggior prete di sto mondo o il peggior vescovo, pur qualcosa, quando io vado alla Messa, lo devo io sapere appunto, cogliere. E lo colgo anche in quelle poche parole o poche espressioni, pur anche in mezzo alle tante deficienze che un vescovo o un prete potrebbe dire, ci può essere pure anche una frase buona. E allora colgo quella almeno. Poi non esageriamo con questo valore da dare all'omelia. Sappiamo che se le nostre celebrazioni durano circa tre quarti d'ora, l'omelia non deve fare la parte del leone. Al massimo 6-7 minuti, perché poi c'è tutto il contesto della celebrazione. Certo, se la tua celebrazione, come succede in alcune parti del mondo, dura tre ore, quattro ore, beh, allora anche l'omelia potrà durare mezz'ora, tre quarti d'ora, un'ora. Tutto è proporzionato. Ma l'omelia non è la parte principale della Messa. Io non posso giudicare la mia o l'altrui partecipazione, o quella del sacerdote, basandomi sull'omelia. È una parte importante, sì, ma non è che deve prendere la parte preponderante. E allora anche la figura del prete o del vescovo passa in secondaria linea, per far emergere colui che è il principale protagonista della celebrazione e che è Gesù Cristo. L'abbiamo detto quante volte durante in questi giorni scorsi. Lui è il sacerdote, sommo sacerdote. Lui è la vittima, offre se stesso. Lui è il mediatore tra Dio e gli uomini. Il prete, il vescovo, è un essere umano che presta la sua voce, che deve scomparire per far emergere, come dice San Paolo, per far emergere sempre di più Gesù Cristo. Lui. E dunque il sacerdote stesso deve forsi in questo affeggiamento di accoglienza di quello che avviene nella celebrazione, per la potenza dello Spirito Santo. Va accolto con la purezza, la limpidezza del cielo, dell'anima. Anche questo, certo, è fondamentale. Dobbiamo chiederci, Signore, è vero che lo diciamo immediatamente prima dell'andare a ricevere la Santa Comunione, non son degno, non sono degno, però verifichiamo che almeno non ci sia la presenza del peccato mortale, perché allora richiede che ci confessiamo prima. Ma non durante la Messa, eh, l'abbiamo già detto altre volte, ma trovare il tempo adeguato fuori dalla Messa, in altri momenti, per celebrare con calma, con sede, questo sacramento. Vedo che il tempo a mia disposizione è già

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